Non andare a votare ai referendum abrogativi ­è mancare a un dovere civico?

Venerdì 15 Aprile 2016 di Ileana Piazzoni 4510

L’astensionismo viene sempre valutato come il segnale di una condizione di salute non buona della democrazia. 

Nelle elezioni relative alla scelta dei rappresentanti dei vari livelli istituzionali, chi non va a votare sa che la sua non partecipazione al voto avrà come unico effetto la segnalazione di un disagio, ma non inciderà in alcun modo sugli effetti di quella elezione, i cui risultati si distribuiranno secondo quanto scelto da chi va a votare. 

Questo vale anche per i referendum di approvazione della Costituzione – come quello che si terrà in autunno – che non prevedono quorum. 

Dove non esiste un quorum da raggiungere, l’elettore sa che la sua non partecipazione al voto non produce effetti diretti sull’esito della consultazione. 

Dove è previsto un quorum da raggiungere, l’elettore sa che la sua non partecipazione al voto può produrre la non validità della consultazione.

Se l’esigenza del quorum emerse dalla volontà di evitare che minoranze organizzate potessero prevalere su maggioranze disorganizzate, nel corso della storia dei referendum abrogativi  la non partecipazione al voto è sempre stata utilizzata come opzione sia dai cittadini, sia dalle organizzazioni sociali, sia dalle forze politiche dei diversi schieramenti. 

Mi sembra significativo analizzare la differenza tra i dati dell’astensione dal voto alle elezioni e di quelli ai referendum degli stessi periodi storici, a dimostrazione che quest’ultima non è attribuibile alla disaffezione dalla politica e al disimpegno civico. 

In occasione del REFERENDUM 1990 (Disciplina caccia, accessi dei cacciatori a fondi privati, uso fitofarmaci) solo 43,3% degli aventi diritto si recò alle urne. C'era il Governo Andreotti  VI e un anno prima si erano tenute le Elezioni europee, che avevano visto un'affluenza del 58,41%. Alle politiche di 3 anni prima, il dato era dell' 88,83%. 

Con il REFERENDUM del 1997 (carriere magistrati, ordine giornalisti, incarichi extragiudiziari magistrati, Ministero delle risorse agricole, alimentari e forestali) solo il 30% degli aventi diritto si recò alle urne per esprimersi sul quesito referendario: anche qui, quorum non raggiunto. Solo il 30% dopo un anno dalle Politiche del 1996 che avevano segnato un 82% di affluenza. 

In occasione del referendum del 1999 (abolizione voto lista per 25% attribuzione seggi) il quorum non fu raggiunto per poco: 49,6% di votanti. Eravamo nel pieno del Governo D'Alema e alle europee dello stesso anno si era segnata la stessa percentuale: 49,51% 

Nel 2000 oggetto del referendum furono i seguenti argomenti: rimborso spese consultazioni elettorali, legge elettorale, componimento liste, separazione carriere magistrati giudicanti/inquirenti, possibilità per magistrati di assumere incarichi fuori dalle loro attività giudiziarie, norme reintegrazione posto di lavoro, trattenute sindacali. Anche per il referendum del 2000, con il 32,2% di votanti, non venne raggiunto il quorum. Alle politiche dell'anno successivo invece, alle urne si recò l'81,38% degli aventi diritto al voto.

Anno 2003 e 2005: 25,5% dei votanti e quorum non raggiunto per i referendum che riguardavano art. 18, servitù coattiva elettrodotto, PMA. Appena un anno dopo, alle elezioni europee del 2004, il 45,47% degli aventi diritto votò per il rinnovo del Parlamento Europeo, mentre alle politiche del 2006 l'81,2% degli aventi diritto al voto scelse i propri rappresentanti al Parlamento. 

Il referendum del 2009 (Elezioni Camera: collegi liste e premio a coalizione, presentazione candidature in più circoscrizioni) fallì per il mancato raggiungimento del quorum: 23,31% di votanti, ad appena un anno dalle elezioni politiche che avevano segnato un 78,10% dei votanti. 

In merito agli appelli all’astensione, annoveriamo: 

  • nel 1991 (riduzione preferenze camera dei deputati): passati alla storia i celebri inviti di Craxi, Bossi e altri ad «andare al mare».
  • Nel 2000, in occasione del referendum su rimborsi elettorali, legge elettorale, incarichi extragiudiziari per magistrati, reintegrazione del posto di lavoro, trattenute associative e sindacali, il Partito radicale tentava, come nel 1995 e 1997, di coinvolgere lo schieramento di centro-destra a schierarsi a favore dei quesiti liberali. Berlusconi, fresco di accordo con la Lega Nord in vista delle Politiche, invitò i suoi elettori ad astenersi. Il sostegno dei Ds al solo referendum per l'abrogazione della quota proporzionale della legge elettorale portò Berlusconi a definire "comunisti" i quesiti referendari.
  • Nel 2003 il referendum sull'articolo 18 venne richiesto da un comitato che comprendeva Rifondazione Comunista, Pdci-Comunisti italiani, Verdi e la corrente di sinistra dei Ds. Margherita e Socialisti italiani si dichiararono contrari all'abrogazione o favorevoli all'astensione. Nei DS, Piero Fassino invitò all'astensione. Il Governo si espresse nettamente per il no. Tra gli esponenti del Governo la posizione più netta fu quella del ministro Roberto Maroni, che aderì a uno dei tre comitati del no. Cisl e Uil invitarono all'astensione, mentre il segretario della CGIL, Sergio Cofferati, si disse contrario allo strumento referendario, auspicando piuttosto l'approvazione di una legge sull'argomento e sulle tesi avanzate dai proponenti del referendum.
  • Nel 2009 ci fu il referendum sulla legge elettorale: UDC, Italia dei Valori e Lega Nord si espressero per il non voto, così come Sinistra Critica. Il giornalista Marco Travaglio ritenne di dover cogliere il suggerimento di costituzionalisti come Sartori e Zagrebelsky, che invitavano all'astensione, partecipando così alla campagna d'astensione al referendum proposto.
  • Il referendum del 2011 sull'affidamento gestione dei servizi pubblici, acqua, nucleare, legittimo impedimento, vide l'invito all'astensione da parte di Pdl, Fiamma Tricolore e La Destra.

Sembra scontato il motivo per cui il Governo oggi inviti tutti all'astensione: l'indizione di un referendum ha quasi sempre lo scopo di intervenire su temi su cui la maggioranza del governo in carica non ha voluto intervenire o è intervenuta in modo opposto. È dunque normale che quest'ultima sia contraria alle finalità del referendum, ossia abrogare la norma. Rispetto a questo punto, l'obiettivo di far fallire il referendum con il mancato raggiungimento del quorum, tramite l’appello all’astensione piuttosto che l’invito a votare, non può essere giudicato come contrario ai principi costituzionali: non sappiamo, infatti, se questo risultato fosse stato previsto dai padri costituenti, ma risulta evidente che sia ormai prassi consolidata il fatto che l'astensione venga usata come strumento capace di perseguire lo stesso scopo di chi non ha intenzione di abrogare la norma oggetto del quesito referendario.

Occorre segnalare come, con la riforma costituzionale, il referendum abrogativo muti in questa direzione, proponendo due diversi percorsi: 500.000 firme per chiedere il referendum e un quorum del 50% più uno affinché sia valido, oppure 800.000 firme con un quorum pari alla metà più uno degli elettori che si sono recati alle urne in occasione delle ultime elezioni politiche.

In virtù di questo, suona davvero singolare, di fronte alla scelta del governo, lo stupore di chi ha spesso utilizzato la stessa strategia e oggi si ritrova a utilizzare l’argomento del dovere civico solo per puro opportunismo.