Premessa. Non posso dirmi un’ecologista ma ho a cuore la tutela dell’ambiente. Ho militato per anni in un partito con una forte componente ecologista, con cui spesso non è stato facile intendersi, ma da cui ho imparato moltissimo.
Sono però affascinata dal progresso tecnologico e mi capita di soffermarmi a pensare con soddisfazione di quale livello di benessere possiamo godere noi fortunati nati in quest’epoca in cui la tecnologia offre sostegni di ogni tipo.
Sono sicuramente una convinta sostenitrice dell’energia rinnovabile: un paesaggio caratterizzato da forte presenza di pannelli fotovoltaici o pale eoliche non mi disturba, anzi mi entusiasma e sono fortemente convinta della necessità di dotare ogni tetto di fotovoltaico.
In famiglia abbiamo due automobili: una a metano e una ibrida elettrica. Attendo con ansia gli sviluppi della ricerca sull’idrogeno.
Sono convinta che sulle rinnovabili siano stati commessi degli errori, a partire dalla iniziale sovra remunerazione degli incentivi (che ha determinato squilibri nel mercato e successivi, drastici tagli) e potremmo sicuramente fare di più, anche se l’Italia è in Europa uno dei Paesi che ha maggiormente sviluppato il settore. Nel 2004 il 6,3% dei consumi lordi finali di energia provenivano da fonte rinnovabile, attualmente tale quota ha abbondantemente superato il 17%, centrando così con largo anticipo l’obiettivo per il nostro Paese fissato dalla Strategia 2020. Per capire la portata del dato solo altri 8 Paesi UE hanno attualmente raggiunto i loro target (Bulgaria, Repubblica Ceca, Estonia, Croazia, Lituania, Romania, Finlandia e Svezia) e alcuni tra gli Stati di maggior peso dell’Unione sono in forte ritardo: la Francia presenta un deficit dall’obiettivo nazionale dell’8,7% l’Olanda dell’8,5%, la Gran Bretagna dell’8%. Nella produzione complessiva di energia elettrica da fonti rinnovabili abbiamo ancora ampi margini di crescita (anche se già oggi sopravanziamo Paesi come Francia e Germania), specie nel settore dei trasporti, dove scontiamo una situazione di debolezza nella riconversione ecologica dei mezzi. Ho già detto di quanto metto in pratica sul tema e ho portato queste mie convinzioni in Parlamento, sostenendo una proposta di legge per incentivare l’acquisto di veicoli elettrici.
Detto ciò, se il referendum del 17 aprile fosse davvero finalizzato ad ottenere un nuovo incentivo allo sviluppo delle energie rinnovabili, non avrei dubbi sul votare a favore.
Ma non è così.
Il referendum che si terrà domenica 17 aprile verte soltanto sulla possibilità di sfruttare i giacimenti in concessione, piattaforme già esistenti entro le 12 miglia marine, per tutta la loro durata utile. Se il referendum superasse il quorum e prevalesse il sì, si avrebbe come unica conseguenza l’impossibilità del rinnovo delle concessioni di estrazione dopo la loro attuale scadenza (occorre precisare che ciò porterebbe a una graduale e non immediata chiusura delle attività estrattive in esame). Rinvio a questo articolo per entrare nei dettagli.
Chi è contrario a questo referendum porta una serie di argomentazioni che non mi vedono tutte d’accordo. A cominciare dalla principale: la perdita dei posti di lavoro. Per quanto non penso che si possa liquidare il problema con un’alzata di spalle o con frasi di circostanza (“li ricollocheremo”: chi lo farebbe? Con quali strumenti? Con quale procedura? Dove?), non penso che questo sia l’argomento giusto. Se ci trovassimo di fronte a un’attività realmente dannosa e pericolosa, penso dovrebbe prevalere – così come è stato per il referendum sul nucleare – la tutela dell’ambiente sull’esigenza della tutela dell’occupazione (anche se la vicenda ILVA in Puglia dimostra che chi governa ha il dovere di trovare soluzioni più complesse di un sì o di un no).
Non mi convince nemmeno la motivazione che, come per il nucleare, chiuderemmo le nostre piattaforme mentre le autorizzazioni dei paesi vicini avrebbero gli stessi effetti suoi nostri mari: qui parliamo SOLO ED ESCLUSIVAMENTE delle piattaforme entro le 12 miglia marine, che per il futuro sono già state vietate (anche se non c’è alcuna certezza sulla loro pericolosità, spostarle più lontano dalla costa è stata la mediazione con chi le vorrebbe chiudere subito). Quindi riguarda solo le nostre coste.
Le ragioni che mi portano a scegliere di non andare a votare, sperando nel mancato raggiungimento del quorum (sulla legittimità di questa scelta, vi invito a cliccare qui dove troverete un’ampia e utile documentazione) sono le seguenti:
- le piattaforme di estrazione offshore (in mare) in Italia sono circa 130; quelle eroganti entro le 12 miglia sono 48; di queste 39 estraggono gas e solo 9 petrolio. Il gas, come a tutti è chiaro, non comporta gli stessi rischi del petrolio, poiché il petrolio ha meccanismi di degradazione nell’ambiente marino molto più complessi e lenti di quelli del gas naturale, che invece si disperde semplicemente in atmosfera. Inoltre, il gas è elemento meno inquinante su cui si è puntato molto per la riduzione dell’utilizzo del petrolio, ben più dannoso;
- la produzione di gas di queste piattaforme è pari a circa il 18% della produzione nazionale. Se venisse a mancare questa quota, non ci potrà essere in nessun modo una sostituzione con energia prodotta con le rinnovabili (il cui sviluppo richiede non solo una seria volontà politica ma anche una strategia complessa e di lungo periodo) mentre si procederà all’importazione della quota mancante dall’estero. Si dice: poco male, meglio comprarla dall’estero che danneggiare il nostro paese. Ammesso che ciò sia vero, qual è la logica alla base? Meglio un evento dannoso da un’altra parte rispetto a casa mia? Mi sembra un ragionamento sbagliato che riecheggia in molti altri settori della vita politica del nostro Paese;
- i promotori del referendum sono alcune Regioni, tra cui NON si annoverano le due in cui si trovano la maggior parte delle piattaforme (Emilia Romagna e Abruzzo): come si spiega la cosa se non con una battaglia politica che esula completamente dal merito e che verte sulla protesta per il ritorno allo Stato della competenza sull’energia che stiamo compiendo con la riforma costituzionale? Sono profondamente convinta che la devoluzione di moltissime competenze alle Regioni sia stata la causa di tantissime storture che si sono sviluppate nel nostro paese dal 2001 (anno dell’entrata in vigore della riforma del titolo V della Costituzione in senso federalista): con la scusa di garantire livelli di prossimità delle scelte politiche, si sono creati sprechi e squilibri tali da mettere in crisi l’intero Paese. Su questo tornerò in sede di campagna per il referendum costituzionale.
A questo punto, perché non andare a votare NO? Perché sono consapevole che esiste un significato del referendum che va oltre il quesito stesso.
Tra i sostenitori del sì, infatti, si dice che sarebbe un segnale contro il governo. Quelli più interessati al merito sperano che possa servire a far cambiare la politica energetica, in direzione di un maggiore impegno sulle rinnovabili: ho già spiegato sopra perché questa ipotesi non è molto realistica se pensiamo agli effetti immediati. Poi ci sono quelli che utilizzano il referendum solo come battaglia contro il governo, del tutto a prescindere dal merito: il folto schieramento di forze di centrodestra, della cui politica ambientale abbiamo tutti il nitido ricordo, che sostiene il sì ha una credibilità pari a zero.
Tuttavia, anche il prevalere del NO potrebbe avere significati che andrebbero oltre il quesito: potrebbe essere considerato come una forte contrarietà a tutti gli argomenti portati da chi sostiene il sì, verso alcuni dei quali invece sento molta vicinanza. Ritengo che su questo tema non ci si possa esprimere con un sì o con un no, ma che occorra la difficile composizione che solo l’attività legislativa del Parlamento può fare. Per questo, attraverso lo strumento che mi offre la Costituzione, scelgo di non partecipare a un referendum di cui non condivido l’indizione.