Risulta essere esemplare in tal senso la vicenda di Semeh, un giovane tunisino che per protestare contro le condizioni inumane di detenzione nel Cie di Ponte Galeria si era cucito la bocca con un filo di rame. Avevo fatto personalmente visita al ragazzo il primo agosto appurando con i miei occhi la precarietà delle sue condizioni di salute e quanto la protesta lo avesse ulteriormente debilitato. In queste ultime ore le circostanze della vicenda hanno però assunto una connotazione ancora più fosca: per il giovane è stato infatti prima tentato un rimpatrio assolutamente incurante delle sue condizioni di salute e successivamente disposto il suo trasferimento da Ponte Galeria in Sicilia, sebbene nessuno sappia dove di preciso. I legali che si stanno occupando della sua richiesta d’asilo temono che questo “trasloco” sia solo l’anticamera del rimpatrio tentato ma non eseguito, lontano dai riflettori del Cie romano. Trovo singolare inoltre che la sua identificazione, che tardava da mesi e per la quale era in programma apposita udienza nelle prossime settimane, abbia trovato una così celere soluzione dopo la mia visita a Ponte Galeria. Questa vicenda getta per l’ennesima volta molte ombre sulla gestione dell’intero sistema Cie. Lo Stato italiano non può permettersi di aggirare i diritti essenziali dei migranti, prevedendo spostamenti e rimpatri forzati senza tenere conto della salute o delle condizioni psichiche degli stessi. Per questo ho voluto interrogare il Ministro dell’Interno sul caso, insieme al collega Khalid Chaouki (Pd), per gettare luce sull’intera vicenda e per accertare che le procedure di trasferimento del giovane Semeh siano avvenute nel pieno rispetto delle norme di legge e dei diritti fondamentali.