Decreto su banche popolari e investment compact

Martedì 7 Aprile 2015 di Ileana Piazzoni 2332

Il 12 marzo la Camera ha approvato la legge di conversione del decreto-legge n. 3/2015 recante “Misure urgenti per il sistema bancario e per gli investimenti” (il cosiddetto investment compact). Il decreto si pone l’obiettivo di una riforma sostanziale in alcuni settori chiave del sistema d’investimenti, pensata per facilitare la ripresa del settore e per fornire strumenti di rilancio della competitività attesi da decenni. Primo e fondamentale provvedimento è quello che prevede una profonda riforma della disciplina delle banche popolari. Una riforma di cui, con maggiore o minore intensità secondo i momenti, si discute da più di vent’anni, tanto che sollecitazioni in tal senso sono venute, nel tempo, dalla Banca d’Italia e dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato, come anche dal Fondo monetario internazionale e dall’Ocse. Le stesse popolari, peraltro, hanno affacciato spesso l’ipotesi di una loro complessiva auto-riforma, ma senza mai giungere a risultati concreti anche a causa di interessi economici e politici spesso troppo “ingombranti”.
Altri provvedimenti contenuti nel decreto si pongono l’obiettivo di aiutare il progresso tecnologico, scientifico e quindi economico del Paese, sostenendo le piccole e medie imprese che investono in innovazione e sviluppo. È stata inoltre normata la portabilità dei conti correnti, per venire incontro alle esigenze dei cittadini e per avvicinare la situazione italiana a una prassi comune al resto d’Europa. Infine si estendono i diritti della proprietà intellettuale su marchi e brevetti, attraverso l’allargamento di sgravi e agevolazioni, così come si agevolano le realtà d’impresa che operano in settori dell’innovazione, della ricerca, della creatività.
Si tratta di una riforma, per alcuni suoi aspetti, “poco mediatica”, ma non per questo poco importante. Siamo di fronte, anzi, ad una misura cruciale per il consolidamento economico e produttivo di interi settori, proprio perché tesa a semplificare e snellire le norme, rilanciare gli investimenti e allargare gli orizzonti di un intero sistema strategico per il nostro Paese.

 

  1. Come funzionano le banche popolari oggi?
  2. Come cambia la situazione con la riforma?
  3. Esiste un rischio di “scalate ostili”?
  4. Si perderanno i caratteri dello spirito mutualistico?
  5. Ci sarà una ricaduta negativa sull’occupazione?
  6. Cosa si prevede per le popolari più piccole?
  7. Quali novità per i conti correnti?
  8. Cosa sono le “piccole e medie imprese innovative”?

 

Come funzionano le banche popolari oggi?

In Italia, la cooperazione in ambito bancario è articolata in due diverse forme: le banche di credito cooperativo (BCC), che sono subentrate alle vecchie casse rurali e artigianali e che hanno mantenuto, anche per questa loro origine storica, un più intenso carattere di mutualità, e le Banche Popolari, che si dividono in due classi nettamente distinte: da una parte quelle che hanno mantenuto una dimensione contenuta e operano sul territorio, dall’altra i gruppi bancari di grandi dimensioni che operano su vasta scala e che di norma hanno una capogruppo quotata in borsa.
Il sistema di corporate governance che contraddistingue le banche popolari, presenta alcune peculiarità:

  • il principio del voto capitario, in base al quale ciascun socio, a prescindere dal numero e dal valore delle azioni in suo possesso, può esprimere un solo voto;
  • la fissazione di un limite al possesso di azioni da parte di ciascun socio, cioè non più dell’1% del capitale sociale;
  • l’istituto del gradimento di nuovi soci, secondo cui le domande di ammissione possono essere rigettate dal Consiglio di amministrazione.

 

Come cambia la situazione con la riforma?

Con una serie di modifiche al Testo Unico delle leggi in materia Bancaria e creditizia (TUB), l’articolo 1 del decreto restringe la categoria delle banche popolari che possono mantenere la forma cooperativa solo a quelle la cui dimensione non sia superiore a 8 miliardi di euro (della banca o del gruppo bancario di cui la popolare è capogruppo), misurati dal totale dell’attivo in bilancio. Le altre, quelle “maggiori”, hanno 18 mesi di tempo per trasformarsi in Società per Azioni, oppure per tornare sotto la soglia degli 8 miliardi, pena l’adozione di provvedimenti da parte dell’Autorità di vigilanza.
Gli istituti interessati alla riforma, dunque, sono in tutto dieci, di cui sette sono classificate come “soggetti significativi” per la rilevante dimensione dei loro attivi e quindi soggette alla vigilanza diretta da parte della BCE.
Le banche al di sopra della soglia potranno inoltre realizzare processi di concertazione con altri intermediari creditizi, purché alla fine ne risulti comunque una S.p.A.
Scopo del decreto, dunque, non è quello di porre rimedio ad una presunta situazione di debolezza delle banche popolari in questione, quanto quello di valorizzare ulteriormente uno dei punti di forza del sistema bancario italiano, contribuendo ad incrementare nel complesso il grado di stabilità del sistema creditizio nazionale. Gli obiettivi fondamentali sono infatti quelli di consentire alle grandi banche di poter reperire più agevolmente risorse sul mercato, accrescendone l’attrattività nei confronti degli investitori e al tempo stesso garantire una maggiore trasparenza e ricambio della governance. Una migliore gestione, dunque, rispetto alla situazione attuale che, a causa dell’elevato frazionamento delle proprietà, non agevola la sorveglianza sull’operato degli amministratori e comporta un’ingessatura della struttura.

 

Esiste un rischio di “scalate ostili”?

Durante l’esame nelle Commissioni, su richiesta del Partito Democratico, sono state apportate delle modifiche volte a salvaguardare, durante la fase di transizione e consolidamento, i nuovi istituti bancari da scalate ostili. È stata dunque introdotta la facoltà di prevedere negli statuti delle S.p.A. risultanti dalla trasformazione delle banche popolari, un tetto del 5% al diritto di voto in assemblea dei soci per un periodo non superiore a due anni. Inoltre, per le stesse finalità, si stabilisce che le speciali maggioranze assembleari, previste per le trasformazioni delle popolari in società per azioni, si applichino anche alle relative modifiche statutarie.

 

Si perderanno i caratteri dello spirito mutualistico?

Naturalmente no. Lo spirito mutualistico verrebbe valorizzato nei contesti dove merita di esserlo, proprio attraverso l’adeguamento delle diverse tipologie di banche popolari alla loro effettiva funzione. Spesso nelle banche popolari la struttura cooperativa – e il voto capitario che la caratterizza – è stata utilizzata da alcuni gruppi di controllo per perseguire ambizioni monopolistiche, fino alla costruzione di veri e propri “imperi”, rimanendo al riparo dalla possibilità di un take-over. L’abolizione del voto capitario nelle più grandi banche popolari non è considerabile dunque come un attacco allo spirito mutualistico del movimento cooperativo, proprio perché le grandi banche popolari di “mutualistico” hanno conservato ben poco, mentre le piccole – che mantengono tratti cooperativi autentici – conserverebbero le loro caratteristiche. È opinione diffusa che alcune grandi banche opererebbero meglio, in termini di gestione, se adeguassero la loro governance alla dimensione e alla funzione che effettivamente hanno, rompendo il velo della cooperazione dietro il quale troppo spesso si sono nascoste per limitare la loro contendibilità.
Inoltre, un’ampia letteratura sottolinea come un punto di forza fondamentale del nostro sistema bancario sia rappresentato dal contatto diretto con la clientela di riferimento (relationship lending), che tra le altre cose riduce il tasso di rischio dei prestiti. È anche vero però che le maggiori banche popolari italiane sono ormai notevolmente lontane dal modello di “banca del territorio”, cioè istituto creditizio dedito principalmente a concentrare i suoi prestiti in un territorio circoscritto. Nessuna delle dieci maggiori banche popolari si avvicina a questo modello, basti pensare che hanno in media sportelli in sessanta province (le maggiori banche italiane non ne hanno molti di più). Questo significa che il modello cooperativo verrà lasciato proprio a quelle banche popolari più piccole che ancora, in alcuni casi, si avvicinano al modello di banca territoriale, le quali non verranno aggregate in S.p.A.

 

Ci sarà una ricaduta negativa sull’occupazione?

Si è parlato spesso di timori relativi ad una possibile ricaduta negativa della riforma dal punto di vista occupazionale. Chi teme questo sottolinea come tra il 2008 e il 2013 l’occupazione del settore bancario italiano sia complessivamente diminuita di circa 30 mila persone e che questo dato potrebbe peggiorare proprio a seguito delle aggregazioni fra banche che scaturirebbero dalla riforma. A costoro c’è però chi risponde che proprio l’esperienza di questi ultimi anni ha messo in evidenza come la più seria minaccia ai livelli occupazionali non venga dalle azioni per aumentare la produttività e contenere i costi di gestione delle banche, bensì dalla mancanza di tali azioni. Aggregazioni ben condotte e autorizzate dall’Autorità di vigilanza, infatti, comporterebbero un incremento della produttività e una migliore trasparenza nella gestione, con il risultato che, come l’esperienza ci dimostra, l’occupazione stessa possa beneficiare di un contesto virtuoso con nuove competenze, incremento delle figure professionali e un campo d’azione allargato a tutela dei livelli di lavoro esistente.

 

Cosa si prevede per le popolari più piccole?

Per quanto riguarda le banche popolari più piccole, quelle cioè al di sotto della soglia degli 8 miliardi, vengono mantenuti i tratti essenziali del metodo cooperativo, vale a dire il voto capitario, i limiti al possesso azionario e il gradimento. Al tempo stesso l’obiettivo è quello di favorire anche per loro una governance efficiente e un miglior accesso al mercato di capitali.
A tal fine diventano per loro applicabili alcune norme del Codice Civile, che in sostanza:

  • introducono la possibilità, per tali istituti, di emettere strumenti partecipativi dotati di diritti patrimoniali e/o amministrativi e strumenti meramente finanziari o di debito;
  • permettono all’atto costitutivo di attribuire ai soci cooperatori più voti (ma non più di 5), consentendo una deroga al voto capitario;
  • allentano i vincoli sulla nomina degli organi di governo societario (la maggioranza degli amministratori non dovrà essere più scelta tra i soci cooperatori) garantendo maggiori poteri agli organi assembleari.

 

Quali novità per i conti correnti?

Nel decreto sulla riforma del sistema bancario e degli investimenti, è contenuta un’importante norma sulla portabilità dei conti correnti, secondo cui gli istituti bancari e i prestatori di servizi a pagamento devono dare corso al trasferimento senza oneri o spese di portabilità a carico del cliente. Il provvedimento recepisce nell’ordinamento la disciplina contenuta in una apposita direttiva UE, nonché quanto richiesto dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato. In sostanza i conti saranno trasferiti con procedura interbancaria (la nuova banca recupera le informazioni dalla vecchia) in un massimo di 12 giorni lavorativi dal momento in cui il consumatore chiede il trasferimento alla nuova banca. Sono previste sanzioni pesanti per le banche che non rispettano le nuove misure e, in caso di tempi più lunghi, è previsto un indennizzo per il cliente proporzionale ai giorni di ritardo e alla giacenza del conto. Si attende ora l’apposito decreto del Ministero dell’Economia per i dettagli sull’indennizzo che potrà essere emanato entro 4 mesi dall’entrata in vigore della legge.

 

Cosa sono le “piccole e medie imprese innovative”?

Una specifica norma contenuta nel decreto introduce la definizione di “piccole e medie imprese innovative”, le quali potranno accedere ad alcune delle semplificazioni, agevolazioni ed incentivi attualmente riservati alle start-up innovative. La norma interviene anche per estendere tale disciplina agevolata ad ulteriori soggetti.
Vengono dunque individuati i requisiti per la qualifica di PMI innovativa. In generale esse dovranno avere sede in Italia, oppure avere la sede in un paese UE ma almeno una filiale in Italia. Dovranno avere l’ultimo bilancio certificato, non essere in possesso di azioni quotate e non essere iscritte al registro speciale previsto per le start-up innovative.
Nello specifico i requisiti richiesti sono:

  • volume di spesa in ricerca e sviluppo uguale o superiore al 3% della maggiore entità fra costo e valore totale della produzione;
  • impiego come dipendenti o collaboratori, nella misura di almeno un quinto della forza lavoro complessiva, di personale qualificato in possesso di titolo di dottorato di ricerca.

Oppure:

  • almeno un terzo del personale in possesso di laurea magistrale;
  • titolarità di almeno una privativa industriale (invenzione industriale, biotecnologica, software ecc.), purché direttamente afferente all’oggetto sociale dell’impresa.

Il decreto definisce poi le agevolazioni di cui queste imprese beneficeranno, estendendo in sostanza ad esse le disposizioni riservate alle start-up innovative dal decreto legge 179 del 2012. Si tratta, in sintesi, di:

  • deroghe al diritto societario, consistenti nella semplificazione di alcune procedure in materia di reintegro delle perdite, diritti dei soci, offerta al pubblico ecc.;
  • agevolazioni fiscali a favore di alcuni soggetti che intrattengono rapporti, a diverso titolo, con le PMI innovative;
  • accesso semplificato, diretto e gratuito al Fondo centrale di garanzia;
  • incentivi fiscali per le persone fisiche o giuridiche che intendono investire nel capitale sociale delle PMI innovative;
  • estensione delle norme sulla raccolta del capitale di rischio, che consentono che essa avvenga mediante portali online (crowdfunding).

Sempre per quanto riguarda l’impresa e l’innovazione, è da menzionare l’allargamento del campo d’applicazione della cosiddetta patent box (regime di tassazione agevolata del 50% sui redditi derivanti dall’utilizzo di opere d’ingegno, marchi, brevetti ecc., introdotta dalla legge di stabilità) alle attività di valorizzazione della proprietà intellettuale gestite e sviluppate in outsourcing. In particolare, il provvedimento rimuove la limitazione che, allo stato attuale, vede i marchi d’impresa agevolati solo se funzionalmente equivalenti ai brevetti, estendendo pertanto le agevolazioni a tutti i marchi, inclusi quelli commerciali.