Sono trascorsi quindici anni dall'approvazione della legge di riforma dei servizi sociali n. 328 dell’8 novembre 2000 che, nonostante l’attribuzione della competenza normativa esclusiva in materia di politiche sociali alle Regioni da parte della legge di riforma del Titolo V della Costituzione approvata qualche mese dopo, ha cambiato profondamente il sistema dei servizi e degli interventi sociali.
Infatti, nonostante siano moltissimi gli aspetti della legge rimasti senza applicazione, e nonostante non tutte le Regioni abbiano emanato una legge di recepimento, in tutto il territorio nazionale si sono affermati i Piani di Zona sociali come strumento principale di programmazione del sistema. Gli enti locali sono stati chiamati ovunque ad implementare forme di aggregazione intercomunale (ambiti territoriali) e a promuovere forme unitarie di organizzazione e gestione associata dei servizi in ambito distrettuale attraverso accordi formali.
La forma per la gestione associata dei servizi sociali è stata lasciata, da tutte le Regioni, alla autonoma determinazione dei comuni che possono scegliere fra le forme previste dal Testo unico degli enti locali: convenzioni), consorzi, unioni di comuni, esercizio associato di funzioni e servizi e accordi di programma. Alcune Regioni hanno ampliato inoltre le citate possibilità prevedendo l’istituzione di aziende pubbliche di servizi alla persona (ASP).
Quando si parla di 21 diversi sistemi di welfare, mettendo in luce le grandi differenze che si sono create sul territorio nazionale, a discapito della garanzia dei diritti sociali a tutti i cittadini, si tende a sottovalutare il ruolo che la forma giuridica di gestione svolge nell'efficacia del sistema di welfare.
In questi anni ha tenuto banco la discussione sulle (poche) risorse disponibili per i servizi sociali, ed in relazione a questo è emerso il tema di quanto la progettazione e l’organizzazione dei servizi, il loro monitoraggio e la valutazione siano elementi fondamentali, capaci di fare la differenza a parità di risorse. Tuttavia, non c’è stata la dovuta attenzione e solo in alcune Regioni c’è stato un investimento serio in questa direzione.
Del resto, il legislatore nazionale negli anni scorsi non ha di certo aiutato Regioni ed enti locali ad assumersi responsabilità in tal senso, procedendo all’emanazione di norme contraddittorie. E’ vero che la disciplina in materia di organizzazione dei servizi sociali è competenza normativa esclusiva regionale, ma molte sono le norme statali che hanno contribuito a complicare il quadro normativo e posto rilevanti difficoltà per alcuni modelli di gestione associata dei servizi sociali operanti in diverse Regioni: dall’articolo 2, comma 28, della legge n. 244/2007 (legge di stabilità per l’anno 2008) per cui a ogni amministrazione comunale veniva consentita l'adesione ad una unica forma associativa tra quelle previste dagli articoli 31, 32 e 33 del TUEL (poi venuta meno per i consorzi socio-assistenziali in forza della previsione di cui all’articolo 20, comma 5, lett. f quater del decreto legge n. 90 del 2014, così come convertito dalla legge 114 del 2014), alla soppressione ope legis (art. 2, comma 186, della legge n. 191/2009), dei consorzi di funzioni costituiti ai sensi dell’art. 31 del TUEL; dalla previsione per i comuni al di sotto dei 5.000 abitanti dell’obbligo all'esercizio in forma associata, mediante unione dei comuni o convenzioni, delle funzioni fondamentali (articolo 19 legge n. 95/2012) al recente d.lgs. n. 39/2013 recente disposizioni contro la corruzione che ha stabilito (artt. 11 commi 2 e 3 e 12 comma 4) l'inconferibilità e l’incompatibilità alla carica di amministratore di ente pubblico per coloro i quali rivestano il ruolo di componente di una Giunta comunale o di consigliere comunale di un comune con popolazione superiore ai 15.000 abitanti o di una forma associativa tra comuni avente la medesima popolazione (pur comprendendo la ratio della norma, un’interpretazione restrittiva pone un ostacolo importante all'incentivo alla gestione associata, se percepita come limite alla rappresentanza dei comuni negli organi decisori).
Ma i problemi più grandi riguardano le Regioni in cui è prevalente una forma associativa “leggera”, realizzata nella forma dell’accordo di programma o della convezione: qui i tanti aspetti problematici sono legati essenzialmente al fatto che l’organo di indirizzo politico (il comitato o la conferenza dei sindaci) non possiede uno status giuridico riconosciuto, ovvero è privo di personalità giuridica autonoma. In questo caso la gestione del piano sociale di zona ricade formalmente e contabilmente sul comune capofila, che tuttavia non usufruisce di nessuna deroga specifica ai vincoli di legge per lo svolgimento di una funzione che in realtà investe non il proprio territorio ma quello di un numero più o meno ampio di comuni. Inoltre, in molti casi il comune capofila non è individuato in modo stabile e definitivo dalla legge regionale, ma la funzione viene assunta a rotazione dai vari comuni appartenenti all'ambito territoriale. Tutto ciò determina notevoli problemi relativamente alla gestione finanziaria dei fondi, alla gestione tecnico-amministrativa dei servizi e alla situazione lavorativa e professionale degli operatori afferenti alla struttura tecnica (usualmente denominata «ufficio di piano») deputata all'attuazione delle linee di indirizzo formulate dall'organo di indirizzo politico e a svolgere funzioni di supporto tecnico dello stesso e di gestione ed implementazione dei servizi e degli interventi sociali. La situazione di provvisorietà dell’ente capofila rende di fatto impossibile una assunzione a tempo indeterminato di questi operatori, mentre il quadro normativo sul lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione e sui vincoli finanziari degli enti locali rende difficoltoso anche il mantenimento dei rapporti di lavoro a tempo determinato.
Quello del regime di precariato a cui sono sottoposti da più di un decennio molti dei lavoratori degli uffici di piano non è solo un problema occupazionale, perché le nuove professionalità necessarie a dar seguito alla riforma prevista dalla L. 328/00 sono figure complesse, molto diverse da quelle previste normalmente dai comuni per la gestione dei propri servizi sociali, e ad oggi sono rinvenibili solo in coloro che hanno materialmente implementato la riforma sui territori, adattando ed integrando le proprie competenze con le necessità che mano a mano sono emerse dall'interazione effettiva dei vari attori sociali. La perdita di queste figure, quindi, segnerebbe un forte arretramento rispetto a tutti i risultati ottenuto nel processo di riforma attuato in questi quindici anni.
In conclusione, le ragioni alla base della gestione associata dei servizi sociali promossa dalla legge n. 328/2000 si sono dimostrate più che fondate, in quanto laddove si è dato vita a una stabile modalità associativa si è riusciti a garantire i livelli essenziali delle prestazioni anche nei piccoli comuni, si sono sviluppati una migliore capacità di progettazione, l’innalzamento della qualità organizzativa, un miglioramento dell’integrazione socio-sanitaria, la possibilità di reinvestire le economie di scala realizzate, la capacità di mobilitare e valorizzare le risorse territoriali in un contesto più ampio di quello comunale.
Proprio per questo appare evidente la necessità di intervenire sul piano legislativo, nazionale e regionale, per dare stabilità e sostegno a quanto di positivo si è sviluppato in questi anni. Occorre chiarire il quadro normativo per i consorzi socio-assistenziali e le aziende pubbliche e speciali, incentivare le forme associative dotate di autonoma personalità giuridica, ma anche affrontare le tante problematiche sviluppate dai comuni capofila, perché anche nel caso di modalità associative leggere si possano evitare quelle criticità esasperate dai conflitti interni agli ambiti.